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Ri-appropriarsi dei tempi. Do Nothing Day: l'inazione come forma di azione

Alighiero Boetti, Il dolce far niente, 1975, Napoli, M.A.D.R.E.


Mercoledì 4 aprile 2012, Grecia – Un farmacista in pensione, Dimitris Christoulas, si suicida con un colpo di pistola alla tempia. Ad Atene. All'ingresso di una stazione della metropolitana. Nei pressi del parlamento. Ora di punta. Sul suo corpo, un biglietto:
Il governo Tsolakoglou (*) ha letteralmente annientato la mia capacità di sopravvivere con una pensione decente, per la quale avevo già pagato (senza aiuti dallo stato) 35 anni di contributi.
Ho un’età che mi impedisce una reazione più attiva (ma se qualcuno decidesse di impugnare il kalashnikov, sarei il primo a seguirlo), non ho altra soluzione che farla finita in modo dignitoso, prima di ridurmi a rovistare nella spazzatura per poter mangiare.
Io credo che un giorno i giovani senza futuro prenderanno le armi e appenderanno i traditori del Paese in Piazza Syntagma, come fecero gli italiani con Mussolini nel 1945.

(*) Georgios Tsolakoglou fu il primo ministro collaborazionista durante l'occupazione tedesca del 1941-42, il biglietto stabilisce subito un parallelo tra quel governo d'occupazione e l'attuale governo Papademos.
Il suicidio di Christoulas non è un evento isolato, per quanto questo si differenzi da altri casi simili per la chiara connotazione politica del messaggio. In Grecia il tasso di suicidi nei primi cinque mesi del 2011 è cresciuto del 40%, ma anche in altri paesi europei toccati dalla crisi economica, come l’Italia (1; 2; 3), si sta registrando un sensibile aumento di quelle che gli psichiatri si sono affrettati a definire “morti economiche” – eufemismo per “omicidi perpetrati da un disumano sistema economico in crisi” – senza tener conto della durata di queste morti.

Sono «morti lente», come giustamente le chiama Valerio Monteventi, inserendo il fenomeno in una cornice temporale, «lente perché non avvengono improvvisamente, seguono un travaglio che accompagna il soggetto per giorni e per mesi prima di arrivare alla tragica scelta».
Si tratta, infatti, di lavoratori e lavoratrici che hanno perso il posto di lavoro, che faticano ad arrivare alla fine del mese svolgendo lavori precari o sottopagati, che non riescono a trovare alcun tipo di occupazione, e decidono di togliersi la vita, di farla finita. Il suicidio appare non solo l’unica degna alternativa ad una vita indegna d’essere vissuta, ma anche la sanzione fisica di una morte sociale già avvenuta.
Inoltre, se al numero delle morti volontarie di persone suicide si somma quello dei lavoratori uccisi dalle sempre più precarie condizioni di sicurezza sul posto di lavoro – dacché anche una riduzione delle tutele fisiche è diretta conseguenza di quello smantellamento sistematico dei diritti dei lavoratori in atto già da diversi anni – il computo dei morti per la crisi è destinato a crescere in maniera considerevole e assumere dimensioni terrificanti.
 
E va rilevato anche un altro dato preoccupante. Invece di fornire adeguati materiali informativi per poter meglio affrontare riflessioni critiche sulle dinamiche reali alla radice del boom dei suicidi, per via di un inveterato, spontaneo, asservimento al potere economico e politico, i media mainstream tendono ad occultare artatamente i cadaveri prodotti dalla crisi, nascondendo il quadro generale di riferimento.
Così in Italia, dove ormai siamo abituati al disservizio mediatico, come in Grecia. 
Mentre i cittadini scendevano in piazza Syntagma per manifestare ancora una volta il loro dissenso dalle sconsiderate scelte politiche ed economiche che hanno portato il paese sull’orlo del baratro e i cittadini al suicidio, i media greci tentavano di coprire qualsiasi riferimento che potesse condurre ad una lettura politica del gesto di Christoulas, manipolando la notizia e il testo del messaggio, motivando l'atto estremo in funzione filo-governativa, inserendolo forzatamente in una surreale cornice di patriottismo e devozione al paese.
Al contrario, le ultime parole di Christoulas, le sue intime speranze, sono espresse con estrema lucidità e incisiva chiarezza:
Io credo che un giorno i giovani senza futuro prenderanno le armi e appenderanno i traditori del Paese in Piazza Syntagma, come fecero gli italiani con Mussolini nel 1945.
Lottare per liberare il paese da un governo burattino della finanza mondiale.

Ma è possibile pensare a forme alternative di protesta che abbiano la stessa efficacia della resistenza armata?
Se lo chiede Franco “Bifo” Berardi in un articolo dal titolo quasi lapalissiano, L’Italia non è la Grecia, pubblicato circa due mesi fa (il 12 febbraio 2012) nel sito del Collettivo Uninomade e nel suo Blog sul sito della rivista «MicroMega»:
La Grecia è in fiamme. Perché in Italia non sperimentiamo una nuova forma di azione, che magari consista nell’inazione, nel rifiuto di partecipare di collaborare di contribuire? Perché non proviamo a organizzare il Do Nothing Day che una ragazza greca, Alexandra-Odette Kypriotaki ha proposto dopo aver constatato che il popolo greco con l’azione e la mobilitazione non è riuscito a difendere nulla? 
La proposta di un Do Nothing Day, una forma di protesta attraverso inazione, è stato esposto e motivato dalla Kypriotaki durante il suo intervento [qui l'audio] alla conferenza Knowledge against financial capitalism (KAFCA), tenutasi a Barcellona dal 1 al 3 dicembre 2011 nei locali del MACBA (Museu d’Art Contemporani de Barcelona). In una nota pubblicata sul suo profilo di Facebook, riproposta anche sul sito della rivista «Loop», Berardi precisa:
Il suo intervento [di Kypriotaki] mi è sembrato provocatorio e suggestivo: «né lottare né scontrarsi ma disertare. Non rivendicare non chiedere, ma dispiegare qui e ora nel mondo ciò che vogliamo vivere. Non agire non mobilitarsi, ma lasciarsi andare all’abbandono di ogni aspettativa. Trasformare in forza la nostra debolezza. Il capitalismo ci chiede una disponibilità continua al desiderio, al contatto, alla produzione. Un tempo permanentemente occupato, sotto pressione alla ricerca di risultati che si fanno sempre più difficili da ottenere. L’obbligo di essere contenti ottimisti e positivi. Dobbiamo proiettare l’immagine di quello che sappiamo, che tutto va bene, che teniamo tutto sotto controllo, che siamo forti. Ma, l’attivismo politico non rischia di chiederci spesso la stessa cosa? Lotte, risultati, la risposta pronta, fuori i timidi, i dubbiosi e i malinconici... Perché non formare un esercito di deboli, di goffi, di ignoranti? Il messaggio sarebbe: siamo depressi, e allora? Il programma: non so. Lo sciopero è il non fare nulla di nulla, Do Nothing Day, un mercoledì, poi anche il giovedì e così via. Come canta Nacho Vegas, il 15M spagnolo ha cambiato il significato di alcune parole, come "sfruttare". Un amico mi ha spiegato qualche tempo fa che la cosa forte delle piazze occupate era la scoperta collettiva del fatto che il lusso vero non ha a che fare con il consumo ma con un altro modo di vivere il tempo, con l’esperienza di fare molto con molto poco, l’incontro con altri coi quali non ti saresti mai incontrato, le nuove amicizie. La ricchezza autentica è quella che ci diamo l’un l’altro quella che circola e non si possiede».
Questo sunto di Franco Berardi, l’audio della conferenza di Barcellona e un testo intitolato Una nuova zona temporale dell’essere (I greci e la neo-psichedelia), reperibile in inglese e spagnolo (e non è chiaro se ambedue le versioni siano traduzioni di un originale in greco), sono le uniche tracce dell’idea della Kypriotaki presenti in rete (o almeno, le uniche che sono riuscito a scovare).
In particolare, Una nuova zona temporale dell’essere è un testo notevole non solo perché è l’elaborazione di un originale punto di vista sul tema delle forme di protesta e di lotta al sistema, da parte di una persona che ha vissuto direttamente la crisi greca, le azioni, le reazioni, e che quindi ha potuto riscontrare con i propri occhi l’efficacia, o inefficacia, dei metodi adottati; ma, soprattutto, perché centra l’attenzione sulla dimensione temporale della lotta, sul fatto che un vero cambiamento può avvenire soltanto cercando di agire per cambiare i "tempi", cambiando innanzitutto le modalità di gestione e di fruizione del tempo.

Negli ultimi anni, le lotte e le proteste di piazza si sono basate sul tentativo di conquista e occupazione dello spazio, di assalto a luoghi simbolo del potere, dunque hanno avuto una qualità topologica, si sono mosse in una dimensione spaziale. Si può trovare una spiegazione della loro inefficacia considerando che il tardo capitalismo – come ha messo in evidenza Wu Ming 1 [L'occhio del purgatorio: i tempi della rivolta e dell’utopia] richiamando l'elaborazione teorica di Fredric Jameson – per quanto perfettamente traducibile in termini spaziali, per via dell’inestricabile connessione tra dimensione spaziale e temporale, in realtà è definito prevalentemente dalla temporalità, da cui deriva il suo essere immateriale, caratteristica che differenzia il tardo capitalismo dalle forme precedenti. Dunque, il tardo capitalismo essendo strutturato temporalmente impone una tirannia dei tempi. Wu Ming 1 sostiene che la retorica degli spazi fa dimenticare che l’elemento cardine, il vero problema, è il controllo sul tempo: non si può vivere una spazialità diversa senza stabilire una diversa temporalità. Per spezzare la tirannia dei tempi del capitalismo è necessario controllarne i tempi, senza sottostare a quelli imposti dal potere. Ad esempio, le manifestazioni di protesta organizzate in corrispondenza di una scadenza istituzionale, quindi stabilita dal potere (come un voto di fiducia per il governo, ecc.), spesso finiscono per essere delle vere e proprie trappole, come è accaduto per il G8 e il 14 dicembre 2010: in quelle occasioni i tempi della protesta sono stati resi «subalterni a quelli della politica ufficiale». Una manifestazione che si configura quasi come un assedio al palazzo del potere traduce il tempo del movimento e della protesta in termini spaziali, ma «non si può assediare oggi questo potere,» spiega Wu Ming 1 «perché questo capitalismo è delocalizzato, è immateriale, quei palazzi sono quasi dei gusci vuoti». Il movimento deve essere ubiquo, deve colpire ovunque; è necessario fermare il tempo del potere e imporre al sistema una temporalità impostata sui ritmi e le scadenze del movimento e della protesta.

Il movimento #Occupy ha messo in atto forme di occupazione molteplice degli spazi e di ridefinizione delle temporalità, così come il Movimiento 15-M spagnolo e gli “Indignados” greci, esperienza cui si ispira la Kypriotaki per l’elaborazione della sua idea relativa all’inazione come forma di protesta. Secondo l’attivista greca si tratterebbe di trasformare un elemento di debolezza, come la depressione (già da tempo endemica in Grecia a causa della crisi economica), che inevitabilmente conduce all’inazione, alla rassegnazione, nei casi estremi al suicidio, in un punto di forza per il singolo e per la collettività; scoprire una nuova zona temporale dell’essere, che permetta ad ognuno di recuperare il proprio tempo (sottraendolo, quindi, al dominio del sistema capitalistico) e che permetta di sintonizzarsi nuovamente sulla propria soggettività, immergersi nel proprio essere organico, e ritrovare un senso di comunità, ri-costruire la collettività sulla base della condivisione delle proprie debolezze.
  
Ogni sintesi può essere in qualche modo riduttiva di un testo abbastanza denso di spunti come quello di Alexandra-Odette Kypriotaki, per cui ho tentato di tradurlo in italiano (facendo un confronto fra la versione inglese e quella spagnola) [si può leggere qui], per renderlo più accessibile anche a chi non ha dimestichezza con la lettura in altre lingue, e poter avere in questo modo un’idea più precisa in merito a questa proposta, a mio avviso intelligente, che certo non va presa come la risposta definitiva agli interrogativi riguardo la metodologia da adottare nelle lotte e nelle manifestazioni di protesta (dal momento che la forma della rivolta va necessariamente commisurata alle necessità specifiche e alla circostanza particolare), ma è sicuramente uno spunto affascinante per cominciare a ripensare le modalità di costruzione del dissenso entro coordinate temporali e non solo spaziali.

E per sottolineare, in chiusura, quanto sia importante per il potere mantenere il controllo sul tempo e sulle temporalità, vorrei attirare l'attenzione su questa recente notizia apparentemente banale: mentre saluta e stringe le mani dei suoi sostenitori, Nicolas Sarkozy si rende conto che sta per perdere l’orologio da polso e prontamente lo infila nella tasca della giacca. Quello del presidente francese potrebbe essere soltanto un gesto istintivo per in mettere in sicurezza un oggetto che certamente ha un notevole valore affettivo ed economico. Eppure in quel rapido riporre l'orologio in tasca si può anche intravedere la preoccupazione e il timore, quindi la pronta reazione, di un uomo di potere al pensiero di perdere l'oggetto simbolo del suo controllo sul tempo, oltretutto con il rischio che questo possa essere smarrito tra la folla: il tempo del potere non può mica finire in mano al popolo!
Ma forse non è necessario entrare in possesso dell'orologio del presidente per liberarsi dai vincoli temporali imposti dal potere. Inventare una nuova temporalità, una nuova zona temporale del proprio essere, alternativa ai ritmi del potere, del sistema capitalistico, può essere già un primo passo verso la liberazione.
 

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